Analisi e Commento
Uno, nessuno e centomila ebbe una gestazione lunga e difficile: fu pubblicato tra il 1925 e il 1926 su La Fiera letteraria, nonostante Pirandello ne avesse cominciato la stesura nel 1909.
Il romanzo porta a compimento il precedente Il fu Mattia Pascal (1904), poiché rappresenta il superamento di quella debolezza umana che in quest’opera aveva portato il protagonista a fuggire dalle trappole della propria esistenza (il lavoro, la famiglia, i debiti) e a gettarsi in un’identità creata da se stesso. In Uno, nessuno e centomila ci troviamo di fronte ad un personaggio ben più maturo, Vitangelo Moscarda, che non combatte più contro le trappole dell’esistenza, bensì contro quelle che Pirandello definisce “maschere”.
Per Vitangelo tutto inizia da un episodio banale, dal quale scaturisce la consapevolezza che noi non siamo per gli altri ciò che siamo per noi stessi, o che crediamo di essere, ma ognuno ci attribuisce una personalità e un’identità in base a propri interessi, scopi, desideri o supposizioni. Questo relativismo non moltiplica né intensifica l’esistenza, ma la annulla, poiché l’uomo non viene riconosciuto dagli altri per ciò che è realmente, ma viene sostituito, nella loro mente e nella loro vita, da un’altra figura. Dunque, finisce col non esistere affatto: quella moltitudine di impressioni, quelle “centomila” rappresentazioni che si hanno di un uomo, vanno a frammentare la sua essenza unitaria, il suo “essere uno”, annientandolo completamente e rendendolo un “nessuno”.
Si diventa schiavi di un meccanismo malato che porta ad adeguare il proprio atteggiamento all’opinione degli altri, si tende a fare e dire ciò che gli altri si aspettano che si faccia o si dica: e questa non è vita, non per Vitangelo, che inizia a provare una repulsione verso questa spirale infernale, che altro non è se non finzione. Vitangelo avverte la soppressione della propria autenticità, non si riconosce più in un “uomo”, ma solo in un “vivente”. Non gli resta quindi che sottrarsi a quella “non vita”, che ha sottratto lui al flusso energetico e vitale della natura.
Il raggiungimento di una condizione autentica e reale, immune dalla falsità e dalla menzogna, non può che escludere “gli altri”, intesi, questi, come i soggetti che, con la costruzione delle loro opinioni, sopprimono il reale, tanto negli uomini, quanto nelle cose. Il relativismo, infatti, per Pirandello è assoluto: gli oggetti diventano importanti, belli, inutili o indifferenti a seconda dei rapporti che hanno con la nostra vita, con i nostri ricordi; e gli stessi uomini diventano un oggetto in balìa dell’interpretazione altrui.
L’elemento mistificante risulta essere il nome: dare un nome ad un individuo o ad una cosa dà alle persone l’illusione che questa persona, o cosa, sia unica ed assoluta, mentre in realtà quel processo nasconde la costruzione di un’idea soggettiva, che si va a sovrapporre all’essenza vera.
E in questo sta la differenza tra Mattia Pascal e Vitangelo: quest’ultimo rinuncia al suo nome, ma anche ad averne un altro, mentre Mattia Pascal, nel primo romanzo, si era limitato a cambiarlo, perché voleva solo un’altra identità, credendo che la sua infelicità fosse legata al tipo di vita condotto “nei suoi panni”.
Vitangelo è andato ben oltre, la sua riflessione si è spinta più lontano, si è spinta al limite, quasi all’eccesso: quello che ha scoperto è troppo difficile da sopportare. Per questo decide di liberarsi di qualunque tipo di identità, avendo compreso che qualunque dimensione, contaminata dagli “altri” e dalle loro opinioni e supposizioni, sarebbe illusoria: ormai Vitangelo si sente, più che identità, soltanto pura anima.
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