Testo della poesia
1. Dov’era la luna? ché il cielo
2. notava in un’alba di perla,
3. ed ergersi il mandorlo e il melo
4. parevano a meglio vederla.
5. Venivano soffi di lampi
6. da un nero di nubi laggiù;
7. veniva una voce dai campi:
8. chiù…
9. Le stelle lucevano rare
10. tra mezzo alla nebbia di latte
11. sentivo il cullare del mare,
12. sentivo un fru fru tra le fratte;
13. sentivo nel cuore un sussulto,
14. com’eco d’un grido che fu.
15. Sonava lontano il singulto:
16. chiù…
17. Su tutte le lucidi vette
18. tremava un sospiro di vento:
19. squassavano le cavallette
20. finissimi sistri d’argento
21. (tintinni a invisibili porte
22. che forse non s’aprono più?…);
23. e c’era quel pianto di morte…
24. chiù…
Parafrasi affiancata
1. Mi domandavo dove fosse la luna, dato che il cielo
2. era immerso (nuotava) nella luce chiara e perlacea dell’alba
3. e sembrava che il mandorlo e il melo rizzassero i loro rami
4. per vedere dove fosse.
5. Venivano guizzi di lampi
6. Da un punto indeterminato del cielo preannuncianti una bufera (nero di nubi);
7. e si sentiva una voce dai campi:
8. chiù (il verso triste e lamentoso dell’assiuolo).
9. Le rare stelle brillavano
10. in mezzo al chiarore lattiginoso diffuso dalla luna (nebbia di latte).
11. Sentivo l’ondeggiare del mare,
12. sentivo un fruscio tra i cespugli,
13. sentivo il cuore sussultare,
14. come se fosse l’eco di un antico grido di dolore.
15. Si sentiva lontano il pianto convulso:
16. chiù…
17. Sulle cime degli alberi, ben visibili e lucenti per il riflesso della luna,
18. tremava un leggero venticello;
19. le cavallette emettevano un suono stridulo con il frullare delle ali,
20. come i sistri d’argento
21. (bussavano alle porte della morte che non si vedono
22. e forse non si apriranno mai più).
23. E continuava quel pianto funereo:
24. chiù…
Parafrasi discorsiva
Mi domandavo dove fosse la luna, dato che il cielo era immerso (nuotava) nella luce chiara e perlacea dell’alba e sembrava che il mandorlo e il melo rizzassero i loro rami per vedere dove fosse.
Da un punto indeterminato del cielo venivano guizzi di lampi preannuncianti una bufera (nero di nubi) e si sentiva una voce dai campi: chiù (il verso triste e lamentoso dell’assiuolo).
Le rare stelle brillavano in mezzo al chiarore lattiginoso diffuso dalla luna (nebbia di latte).
Sentivo l’ondeggiare del mare, sentivo un fruscio tra i cespugli, sentivo il cuore sussultare, come se fosse l’eco di un antico grido di dolore. Si sentiva lontano il pianto convulso: chiù…
Sulle cime degli alberi, ben visibili e lucenti per il riflesso della luna, tremava un leggero venticello; le cavallette emettevano un suono stridulo con il frullare delle ali, come i sistri d’argento (bussavano alle porte della morte che non si vedono e forse non si apriranno mai più). E continuava quel pianto funereo: chiù…
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Analisi e Commento
La poesia L’assiuolo viene pubblicata da Giovanni Pascoli nel 1897 sulla rivista «Marzocco» e, successivamente, inclusa nella quarta edizione di Myricae, nella sezione In campagna. L’intera raccolta deve il titolo ad un verso delle Bucoliche del poeta latino Virgilio: «iuvant arbusta humilesque myricae.», ossia, «piacciono gli alberi e le umili tamerici». Con questo titolo Pascoli vuole introdurci subito al tono semplice delle sue liriche, alla quotidianità dei temi in esse affrontate. In Myricae viene raccontata la vita agreste in tutte le sue sfaccettature, ma dietro ad ogni figura bucolica ritroviamo le inquietudini del poeta, il senso di precarietà dell’esistenza e il dramma della morte.
L’assiuolo, che dà il titolo alla lirica, è un piccolo rapace notturno, simile al gufo e alla civetta, che emette un grido (chiù) che, nella tradizione popolare, viene associato alla tristezza e alla morte. Il suo verso lugubre, in forma onomatopeica, scandisce la poesia e si carica di significati simbolici. I critici Gioanola e Li Vigni, parlando di questa poesia, dicono:
Siamo alle soglie dell’alba – un’alba di luna – e il lugubre grido dell’assiuolo, annunciatore di morte nella credenza popolare, agisce probabilmente nella semincoscienza del dormiveglia e suscita una serie di immagini inquietanti, tutte più o meno riferibili alla realtà, ma travolte nella loro essenza e nel loro ordinamento sintattico da un forte vento d’angoscia. E naturalmente i versi, che nascono su un materiale così poco coordinato come quello onirico, svolgono un discorso per elementi staccati, non logicamente dipendente, secondo una sintassi franta, a blocchi giustapposti. L’origine dello stile pascoliano è proprio qui. 1
La prima strofa inizia con una domanda («Dov’era la luna?»), giustificata dal fatto che il cielo è quasi immerso nella luce perlacea e le piante, alle quali vengono attribuite peculiarità umane, si rizzano per vedere la luna. Siamo nel momento che precede l’alba e già inizia a diffondersi il lamento stridulo dell’assiuolo che, gradualmente, diviene un singhiozzo premonitore di morte e arriva a trasformarsi, nella terza ed ultima strofa, in un pianto desolato, di morte, capace di angosciare il poeta, il quale è solo col suo dolore, in un universo immenso. È come se l’assiuolo fosse il poeta stesso.
Le tre strofe della poesia manifestano un crescendo di pathos e partono tutte presentandoci immagini di luce (il chiarore della luna, il luccichio delle stelle, gli alberi lucenti per il riflesso della luna) e si concludono con immagini di segno diametralmente opposto.
La lirica è caratterizzata dal fonosimbolismo: un procedimento linguistico tipico in Pascoli, il quale ricerca gli effetti sonori nelle parole per trasmettere dei significati ulteriori. Colpisce, in particolare, il ricorso alle onomatopee che, in questa lirica, acquistano una rilevanza particolare. L’onomatopea con la quale si concludono tutte le strofe (chiù) altro non è che il fonosimbolo della morte: rappresenta il suono attraverso il quale i morti comunicano coi vivi. Seguendo il richiamo del chiù l’io del poeta riesce a comunicare coi morti. La voce degli uccelli in Pascoli, infatti, serve spesso per consegnare un messaggio pieno di significati simbolici. Gli uccelli notturni fungono da intermediari fra il mondo dei vivi e quello dei morti.
L’onomatopea tintinni, invece, richiama il «tintinnio segreto» di cui Pascoli parla nel Fanciullino, l’articolo da lui pubblicato a puntate sul «Marzocco» nel 1897, che rappresenta una sorta di dichiarazione della sua poetica. Per Pascoli il fine ultimo di far poesia è: «esorcizzare la morte, che costituisce il nostro limite, tenere a bada l’angoscia esistenziale, che ci assilla, attraverso quella forma di sopravvivenza, sia pure provvisoria, che è la parola».2
Il poeta altri non è che «l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente»3, proprio come il fanciullo che riesce ancora a guardare tutto con stupore, arrivando a capire il mistero dell’esistenza esplorando il mondo con sguardo incantato.
Nella terza strofa, come nella prima, il poeta ci pone di fronte ad un interrogativo invitandoci a riflettere sulla possibilità che le porte della morte rimangano chiuse per sempre, non permettendo la resurrezione e il ritorno dei propri cari defunti ed anche impedendo la possibilità di svelare il mistero della vita che l’apertura di queste avrebbe potuto dischiudere. In questa strofa il poeta manifesta tutta la sua angoscia: i suoni del rapace notturno hanno riportato alla sua mente il dolore per la perdita dei suoi cari e gli hanno permesso di acquisire la consapevolezza che la morte incombe anche su di lui.
Confronti
L’assiuolo è un esempio tipico dello stile poetico pascoliano, secondo gli ideali che egli tratta in Il fanciullino, opera saggistica in cui l’autore rivela il proprio ideale poetico. Il legame tra L’assiuolo e questo saggio, pubblicato nello stesso anno…
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Ottimo