Saggio critico: “La memoria e la madeleine o le intermittenze del cuore” Parte seconda

Le intermittenze del cuore, però, “non sono legate solamente alla memoria, ma anche ai ‘gradi’ e i ritmi del sonno”9. Infatti la Recherche inizia (non a caso) con una stanza buia ed “affida ad un Narratore sospeso tra il sonno e la veglia, ricordi e oblio, passato e presente, il compito di rievocare il tempo perduto”10; non solo rievocarlo ma, una volta rievocato, recuperarlo: il tempo può essere ritrovato solo una volta che è stato riesumato dall’oblio dalla nostra memoria involontaria. Non a caso, si diceva, l’esordio della Recherche avviene in una stanza buia; infatti “il sonno introduce il dormiente in una sfera totalmente diversa da quella della vita abituale, non più soggetta al rigoroso controllo della volontà e dell’intelligenza”11, concezione questa di cui Proust è certamente debitore a Maury. Allentare le difese, insomma, per lasciare che la memoria affiori e sia riscattata (e noi con lei) dall’oblio. Della memoria legata all’oblio e del riscatto della memoria dall’oblio c’è un esempio nell’opera di Proust in Sodome et Gomorrhe II: Marcel, tornato da una cena, si lascia andare a una serie di riflessioni sul sonno che, come si diceva nel capitolo II, è anch’esso legato alla memoria e al riaffiorare del nostro Moi de profondeur, e commenta una conversazione (fittizia solo in parte) tra Bergson e Boutroux che un ospite dei Verdurin gli avrebbe riferito. Scrive Proust:

“Je ne sais si cette conversation entre M. Bergson et M. Boutroux est exacte… Personnellement mon expérience m’a donné résultats opposés”12.

Il centro della conversazione è che Bergson ritiene che, nonostante l’assunzione di sonniferi, non venga intaccata “cette solide mémoire de notre vie de toute le jours, si bien installée en nous”13, ma solo le forme di memoria che custodiscono “il nostro bagaglio di conoscenze intellettuali”14; mentre, secondo Marcel (e secondo Proust), l’oblio “qui règne au cours d’une nuit de sommeil naturel et profond”15 agisce non tanto sui concetti elevati (‘il nostro bagaglio di conoscenze intellettuali’ insomma) quanto piuttosto sulla “réalité elle-même des choses vulgaires qui m’entourent”16. Insomma, la differenza fondamentale della concezione degli effetti della memoria tra Bergson e Marcel (e Proust) è che “Bergson riduce la quasi totalità delle sensazioni sperimentate durante il sogno […] a sensazioni reali, prodotte da cause esterne, e [..] perché si verifichi un sogno il materiale dovrà organizzarsi in forme coerenti: a questo punto interviene la memoria”17. Per Proust invece la memoria agisce subito: la memoria è subito sollecitata da una sensazione (non necessariamente empirica) e non da una sensazione qualsiasi (non da una qualsiasi tazza di tè presa in un giorno qualsiasi), ma dalla sola sensazione che la memoria ‘attendeva’ per essere riscattata dall’oblio.

In Proust c’è di più, molto di più di Bergson: si tratta, secondo me, affinché la memoria affiori, di unire due ‘tensioni’: quella della ‘passività’, perché il nostro Moi de profondeur (la sola memoria cui dobbiamo credere) non affiora se ci sforziamo ma solo se ci “lasciamo vivere”18; e quella che ci tiene in quello stato d’ “insonnia ideale”19, di veglia necessario perché il nostro Io profondo possa affiorare e trovarci pronti ad accoglierlo. La memoria, insomma, non agisce sola, senza di noi; al contrario, ha bisogno di noi per riaffiorare; di noi che apriamo il libro, di noi che beviamo quella tazza di tè.

Secondo Freud, “una parte considerevole della nostra vita psichica si svolge […] fuori di noi”20; lo stesso vale per Proust: per quanto non ci siano stati contatti tra Freud e Proust, le teorie di Freud e le idee della memoria involontaria e le intermittenze del cuore di Proust hanno diverse somiglianze. Anche per Proust, infatti, “la parte migliore della nostra memoria è fuori di noi. […] E’ nell’odore di rinchiuso di una stanza, è una certa irregolarità nei campanili di San Marco”21. La natura umana è stata da entrambi “sollecitata nella sua profondità”22 e, da Proust, “portata alla luce del sole, espressa, fissata”23.

“Quando si legge”, dice Macchia, “noi siamo in presenza del pensiero di un altro e tuttavia siamo soli”24. Questo avviene anche quando si ricorda, quando la nostra memoria – involontariamente – riporta a noi sensazioni e persone e luoghi che si credevano perduti. Scrive Rivière:

“Ci sono in noi degli scogli, delle formazioni sottomarine che il pensiero cosciente […] incontra ad un tratto e contro cui si squarcia. C’è un mondo sommerso sul quale non possiamo avere se non scarse e casuali informazioni25;”

e Proust è riuscito, con la sua opera, a far riemergere quel mondo sommerso sia in se stesso che negli altri, nei suoi lettori. Talvolta è l’opera di Proust ‘la tazza di tè’ migliore.

Comunque, Proust non parla solo di una memoria involontaria paragonata e contrapposta ad una volontaria (e non affidabile); in lui c’è anche una ‘memoria affettiva’, concezione che riprende da Ribot, il quale distingueva anche tra ‘mémoire affective abstraite’ e ‘mémoire affective concrète’. Il primo apparire di questo tipo di memoria è nel ricordo della morte della nonna di Marcel, quando il narratore si rende conto dei suoi sentimenti per la nonna “ripetendo lo stesso gesto compiuto in passato, così vive un momento di sconforto e solitudine identici”26: “Je n’était plus”, scrive Proust, “que cet être qui cherchais à se réfugier dans le bras de sa grand-mère”27. Ecco l’opera della ‘memoria affettiva’. Inoltre, l’analisi di Proust mette in risalto degli elementi che vanno al di là delle teorie sulla memoria affettiva di Ribot; Proust sottolinea “l’involontarietà del ricordo affettivo e la sua immediata concomitanza con determinate catene associative”28; infatti, anche nell’esempio citato sopra, si vede non solo che Marcel ritrova la ‘réalité vivante’ della nonna in un ricordo involontario, ma soprattutto si pone come “condizione di quel recupero la possibilità di riafferrare le ‘cadre de sensations’ entro cui le emozioni passate erano custodite”29. C’è, però, una grandissima differenza tra la memoria involontaria e quella affettiva, c’è un limite che la ‘memoria affettiva’ ha e che quella involontaria sorpassa: la prima fa rivivere il passato, l’ ‘io’ passato, ma è solo quella involontaria che permette all’ ‘io’ passato ed all’ ‘io’ presente di convivere.

E’ proprio grazie alle intermittenze della memoria involontaria che Proust è riuscito a compiere quel viaggio che è la Recherche; Proust, come scrive R. Fernandez nella dedica a P. Morand del suo libro Alla gloria di Proust, “è [l’uomo] che è partito un giorno alla ricerca del tempo perduto per farci dono delle rivelazioni del tempo ritrovato”30.

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Foto in apertura di Marylise Doctrinal




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