Saggio critico: “Leggere la Recherche – Cattedrali sommerse riaffiorano”

“Non mi importa”, ha scritto Proust “sapere l’inglese. Mi interessa sapere Ruskin”1. Personalmente, mi sembra un motivo più che valido per impegnarsi a studiare una lingua straniera.
C’è una leggenda che riguarda la cattedrale di Chartes, che vuole che ci sia una singola pietra alla base di tutto l’edificio. Se questa venisse spostata, tutta la cattedrale crollerebbe. Molti sostengono che lo stesso possa avvenire con la monumentale cattedrale proustiana (la Recherche). Io non sono d’accordo. L’opera di Proust è una ‘cattedrale’, è vero e lo è per una infinità di motivi (non ultimo la mole notevole); ma è una cattedrale solidissima. Comunque, abbastanza solida da resistere agli ‘urti della lettura’ e, a quelli più forti ma (forse) meno dannosi, della ‘non – lettura’.
L’idea dell’opera come cattedrale è molto presente in Proust; infatti, lui stesso definisce il suo libro come “une cathédrale”2, e Céleste Albaret riporta nel suo Monsieur Proust:

“Quando m’ha dichiarato che vedeva la propria opera come una cattedrale nella letteratura, ciò significava che egli pensava che sarebbe vissuta quanto le chiese che amava tanto – e allora che importa che il personaggio della duchessa di Guermantes, per esempio, sia preso in parte dalla contessa Greffuhle […]? Fra cento anni […] chi si ricorderà ancora di queste signore? Ma la duchessa di Guermantes e gli altri personaggi, loro, vivranno sempre nei suoi libri e davanti agli occhi di nuove generazioni di lettori”3.

Allora è già insito nella struttura dell’opera il suo futuro. Insomma, “l’immense édifice du souvenir”4 si costruisce già sulla cattedrale.
Se si prende in mano il dizionario si vedrà che cattedrale risponde alla seguente definizione: “la chiesa principale della diocesi, sede della cattedra da cui il vescovo esercita la giurisdizione spirituale”5. Ora, lasciando a parte l’aspetto religioso che, secondo me, comunque non è del tutto assente in Proust come invece riteneva François Mauriac (“Dio, in quest’opera, è spaventosamente assente”6); quello che è importante sottolineare è che, in una cattedrale, un vescovo esercita da una cattedra una ‘giurisdizione spirituale’. La cattedrale, allora, è il luogo, la sede dalla quale questa giurisdizione viene esercitata. Insomma, viene esercitato un ‘potere’; qualcosa passa da qualcuno a qualcun altro. Questo passaggio ‘da – a’ avviene anche in quella cattedrale che è la Recherche. Proust, per molti versi, è quel vescovo. Tuttavia, io non credo che lui eserciti ‘una giurisdizione’ (tanto meno spirituale). Credo piuttosto che l’opera in sé renda possibile questo passaggio. La Recherche, allora, in quanto opera scritta, in quanto cattedrale del pensiero (più che della carta stampata), in assoluta autonomia offre essa stessa qualcosa al suo lettore. Il passaggio avviene, durante la lettura, senza bisogno alcuno della ‘presenza di Proust’. Due sole entità devono essere presenti perché questo avvenga: l’opera e il lettore.

 

La Recherche è una cattedrale, si è detto, ma solidissima e assolutamente autonoma. È una cattedrale che, alla fine, non ha nemmeno più bisogno del suo autore (non è lui che esercita alcun potere), ma del lettore sì. Intendiamoci, io credo che un libro ‘viva’ comunque, a prescindere e a dispetto del lettore, e dell’essere o no letto, ma è innegabile, d’altra parte, che il lettore è necessario affinché questo passaggio avvenga. Ma che cosa ‘passa’? Che cosa viene trasmesso?
Innanzitutto, bisogna tenere presente che quando si parla di ‘passaggio’ non si intende un’attività unilaterale: il libro trasmette qualcosa e il lettore riceve. Questo, infatti, deve essere attivo e deve cogliere i richiami che il libro, “macchina stupenda e complessa”7, invia. Il lettore, insomma, deve collaborare alla decodificazione del significato del testo. L’arte, infatti, si esprime dans une sorte de langue étrangère. Sous chaque mot chacun de nous met son sens8. La scrittura, allora, “è un voler dire”9 e, in un certo modo, anche la lettura: scrivendo certe cose e non altre, probabilmente, si vogliono dire certe cose (e non altre); e con la lettura accade lo stesso. Scrive Auerbach:

A confronto con l’opera di Proust quasi tutti i romanzi che si conoscono sembrano dei semplici racconti. La ricerca del tempo perduto è una cronaca ricavata dal ricordo, nella quale la successione empirica del tempo è sostituita dal misterioso e spesso trascurato collegarsi degli avvenimenti che il biografo dell’anima, guardando all’indietro e dentro di sé, sente come l’unica cosa vera10.

E anche la lettura, secondo Proust, non è la verità ma la possibilità di elaborare, di ricreare in noi una qualche forma di verità. La lettura insomma,“se contente de nous en rendre l’usage, comme, dans les affections nerveuses, le psychothérapeute ne fait que restituer au malade la volonté de se servir de son estomac, de ses jambes, de son cerveau, restés intacts”11. Niente si trasmette, allora, se non si vuole. O comunque si trasmette nel vuoto.
Riprendendo in mano il dizionario si leggerà alla voce ‘eco’:

  1. 1. Fenomeno acustico per cui un suono, riflesso da un ostacolo, viene udito nel punto di emissione;
  2. 2. Ripercussione, risonanza che ha un fatto, una notizia, un fenomeno culturale;
  3. 3. Titolo di giornali, rubriche, agenzie di informazione12.

 

Direi che l’unica definizione che può servire a questo discorso sia la n. 1. Oltre al ‘passaggio’ di cui si parlava prima, allora, c’è un ‘ritorno’. Il fenomeno acustico, infatti, viene udito nel punto d’emissione. Qualcosa, allora, viene trasmesso da un certo punto, arriva in un altro punto, a un altro essere lontano nello spazio e nel tempo, senza però toccarlo e lì resta. La sua eco, però, ritorna indietro a stabilire, forse, quel debole contatto che Proust, dal canto suo, non credeva possibile che con la letteratura che è, allora, “l’unica vita veramente vissuta”13. Non c’è altro contatto possibile, nello spazio e nel tempo, fra gli esseri, nemmeno tra quelli ‘peggiori’: gli esseri amati. Infatti, scrive Proust nella Prisonnière:

“Et je comprenais l’impossibilité où se heurte l’amour. Nous nous imaginons qu’il a pour objet un être qui peut être couche devant nous, enfermé dans un corps. Hélas! Il est l’extension de cet être à tous les points de l’espace et du temps que ces être a occupés et occupera. Si nous ne possédons pas son contact avec tel lieu, avec telle heure, nous non le possédons pas. Or nous ne pouvons toucher tous ces points. Si encore ils nous étaient désignes, peut-être pourrions-nous étendre jusqu’à eux. Mais nous tâtonnons sans le trouver. De là défiance, la jalousie, les persécutions. Nous perdons un temps sur une piste absurde et nous passons sans le soupçonner a côté du vrai”14.

È quindi impossibile raggiungere l’altro essere e, in particolare, l’essere amato che è quello più sfuggente. Albertine (l’emblema dell’essere amato nella Recherche, secondo me) è, non a caso, prima ‘la prigioniera’ e poi ‘la fuggitiva’. Mai, allora, Marcel arriva a toccarla. “Qualsiasi essere amato”, scrive Proust, “– anzi, in una certa misura qualsiasi essere – è per noi simile a Giano: se ci abbandona, ci presenta la faccia che ci attira; se lo sappiamo a nostra perpetua disposizione, la faccia che ci annoia”15. Si può essere, su questo, più o meno d’accordo ma il punto è che noi non arriveremo mai a toccare quest’essere, quindi mai lo conosceremo davvero. Tuttavia, una possibilità (l’unica?) ci viene offerta dalla letteratura. Questa, infatti, può avvicinarci a quell’essere, può metterci in contatto con lui “o con la sua assenza”16. In fondo, la lettura (che è un’espressione della letteratura) altro non è che la conciliazione “di due assenze: quelle del lettore alla scrittura e quella dello scrittore alla lettura”17.
Tornando al discorso sull’eco che si faceva prima, si è detto che allora c’è, in questa cattedrale che è la Recherche, non solo un ‘passaggio’ ma un ‘ritorno’. Niente si perde, quindi, (perché niente va perso) nella Recherche. La cattedrale è perfetta, tuttavia non contiene tutto; non tutto (ri)torna. Proust non è tutto nella Recherche, come sosteneva invece Rella18, e chissà!, forse, fuori ne è rimasta una buona parte. “Combien de grandes cathédrales restant inachevés!”19, dice Proust. E praticamente tutte le cattedrali che sono tutti i libri restano incomplete. È nella loro natura rimanere tali.
La Recherche resta incompleta (e sono vani tutti gli sforzi di completarla) per la sua struttura interna; per quello che ha ancora da dire; per quello che i lettori dovranno ancora leggere. Questa grande cattedrale perfettamente incompleta resta così per il fatto che viene sempre letta o riletta e che, quindi, ha sempre qualcosa d’altro da dire. Se la Recherche fosse finita, se fosse completa (o completabile) non la leggeremmo oggi, nel 2011. Allora, forse, a quella della cattedrale si potrebbe accostare l’immagine del puzzle. Se entra nel gioco, ognuno può mettere il suo pezzo, con la sua lettura, tenendo però in conto che sta componendo uno di quei puzzle da tremila tessere e che quindi il gioco durerà molto, molto a lungo. Per fortuna.

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Foto in apertura di Insula dulcamara




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